Il TFR o Trattamento di Fine Rapporto è un diritto del lavoratore e quella somma, pari a circa il 6,91 per cento del reddito lordo, gli viene retrocessa alla fine del rapporto di collaborazione con l’azienda, perché questi cambi datore di lavoro o cessi l’attività lavorativa, ed è regolato dall’articolo 2120 del Codice Civile. Il Decreto Maroni del 2005 ha permesso ai lavoratori di scegliere dove indirizzare il proprio trattamento di fine rapporto: in buona sostanza al lavoratore sono date tre scelte, contro le due che aveva in precedenza. Dal 1º gennaio 2007, cioè da quando il decreto è diventato operativo, i lavoratori hanno la possibilità di lasciare il TFR in azienda, versarlo nei fondi di categoria oppure versarlo in strumenti di previdenza individuale.

Nella scelta da fare bisogna tener conto di alcune variabili: la prima è la tassazione, perché lasciare il TFR in azienda può rappresentare una sorta di harakiri per il lavoratore: presuppone una tassazione con aliquote che vanno dal 23 per cento in su. Con le altre due scelte invece la tassazione massima è del 15 percento, quindi banalmente guadagno da 800,00 € in su ogni 10.000,00 € di liquidazione a cui ho diritto, cioè sarò tassato di massimo 1.500,00 € contro 2.300,00 €.

La seconda variabile non meno importante è il fatto che il TFR versato in un fondo non risente di nessuna crisi aziendale. Molte aziende hanno dichiarato fallimento durante la pandemia: i lavoratori che hanno il loro TFR in un fondo dormono – come si suol dire – tra due guanciali, gli altri invece dovranno aspettare la conclusione del concordato per arrivare a vedere il loro denaro. Siamo tutti convinti che la nostra azienda non fallirà, lo era anche un mio cliente quando, nel 2002, gli proposi di spostare il TFR come aveva fatto il suo collega; quando nel 2008 l’azienda fallì, si accorse di aver sbagliato; il suo collega cambiò azienda e il suo TFR non risentì di nulla, cambiò solo chi effettuava il versamento; il mio cliente invece aspettò sino al 2014 per vedere il suo TFR.

La terza variabile non indifferente è la possibilità di scegliere la linea d’investimento nella quale accantonare il proprio TFR: un ragazzo giovane può scegliere una linea aggressiva, il tempo lavora per lui, salvo poi abbassare l’asticella una volta in prossimità del traguardo pensionistico.

A onor del vero dobbiamo considerare anche il fatto che, se metto il mio denaro in un fondo, potrò averlo solo quando andrò in pensione, salvo che per i casi previsti dalla legge. Questo, a detta di molti addetti ai lavori, è uno degli ostacoli maggiori per chi vuole investire in previdenza: una corretta pianificazione degli investimenti ci porterà a liberare risorse e ad avere risultato migliori per le nostre finanze.

Come sempre quando parliamo di investimenti, dobbiamo sempre tener conto di una variabile importante: le emozioni. Eccole che tornano, come le arabe fenici risorgono dalle loro ceneri. Le emozioni sono le peggiori nemiche degli investitori: non fare una scelta previdenziale sull’onda di un’emozione può fare la differenza tra avere e non avere un tenore di vita in linea con le proprie aspettative una volta che si arriva alla pensione.

L’emozione ricorrente che porta a non considerare gli investimenti previdenziali è il senso di abbandono: pensare di lasciare quarant’anni il TFR investito è come pensare di abbandonare un vecchio amico che non si potrà rivedere se non a distanza di anni; se il mio amico però andasse a star bene e quando lo rivedrò farà star bene anche me forse lo lascerei con minor timore.

A questi e ad altri dubbi risponderò nel Webinar del prossimo 25 febbraio prossimo: fai click sul pulsante qui sotto e iscriviti!

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